DANTE ALIGHIERI IN BADIA 2021
La teologia di Dante,
tra parola, poesia, preghiera e realtà
Sabrina Corsino
Nei giorni di sabato 8, 15 e 22 Maggio si sono tenuti i primi tre incontri del ciclo di conversazioni «Dante poeta cristiano. Conversazioni cittadine alla Badia» organizzato dalla Associazione Culturale Badia Fiorentina, dalle Fraternità Monastiche di Gerusalemme in collaborazione con gli universitari di Cl. L’intera iniziativa si dispiega attraverso conversazioni culturali e artistiche proposte alla città all’interno della Badia Fiorentina che l’Alighieri ha conosciuto. Il racconto del viaggio esistenziale del poeta, uomo cristiano del suo tempo, e la storia di questo luogo si intrecciano e consegnano alla città un'originale lettura del genio ancora attuale e profetico di Dante: padre della lingua italiana, ma anche raffinato teologo e poeta cristiano. Nell’opera dantesca la luce della fede si fa realtà, poesia abitata dal desiderio, canto accorato che sveglia dalla ipocrisia, sguardo amante che salva. Papa Francesco, nella lettera apostolica “Candor lucis aeternae”, scritta il 25 Marzo 2021 in occasione del settimo centenario della morte di Dante, sostiene che leggere la Commedia può aiutare a procedere con libertà e coraggio nel viaggio della vita, orientando nuovamente il cammino dell’uomo verso l’Amore che muove il sole e le altre stelle.
Alla luce di questa prospettiva teologica ha preso vita la prima conversazione «Il Poeta e la Preghiera. La dimensione liturgica della vita» affidata a Bernardo Maria Gianni, abate di San Miniato al Monte. Partendo dall’incipit del xxxIII canto del Paradiso, in cui Maria viene definita «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» e «colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura», Bernardo ci ha invitato a ripensare l’umana natura che ha sempre più bisogno di essere nobilitata, e maggiormente nell’attualità in cui si rischia di cadere in una dimensione di indifferenza. La luce cristiana della poesia di Dante può illuminare allora la selva oscura della storia, muovendoci a intraprendere quella escursione cosmica che conduce a una meta luminosa, la visione di Dio (Par., xxxIII, 129-145). Oggi, in questo difficoltoso pellegrinaggio, prega chi si riconosce precarius, chi sa di non essere in grado di fare nulla da solo, ma mosso ugualmente da una tensione ardente, si spinge sempre più in là verso la luce divina. Prega chi riconosce la condizione umana come figliolanza di Grazia, chi si lascia raggiungere dallo sguardo di quella Misericordia che muove, trasforma e riconsegna ogni cosa all’origine dell’essere. Queste conversazioni cittadine, che si svolgono proprio sotto il campanile della Badia, continua l’abate, non possono che riecheggiare i versi di Paradiso XV «Fiorenza dentro della cerchia antica, ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica». La qualità di questa città è ritmata dal suono delle campane del monastero benedettino e dalla misura liturgica che i monaci, viventi ingranaggi di un orologio, assicurano. Il rintocco delle campane, come l’orologio, scandiscono il tempo, anch’esso creatura del Padre, e sono simbolo di quella profonda Armonia tra cielo e terra, di un cosmo ordinato e bello, in opposizione alla visione atomistica democritea di un mondo caotico e di un Dio indifferente alle sorti dell’uomo. «La liturgia è dunque restitutiva della sinfonia dell’alto paradiso che si riverbera anche in terra» Nella riflessione poetica e teologica di Dante l’esperienza di questa reciproca inerenza tra cielo e terra è - parola all’unisono - manifestazione di un metodo di ricomposizione sinfonica in un orizzonte che salva alterità e unitarietà. Ognuno di noi appartiene alla vivente comunione di tempo e eternità; così Bernardo affida la conclusione a un verso di un altro poeta, questa volta a noi più vicino, Mario Luzi, attraverso cui segna il ritmo della sua intera riflessione:
«Solo/ la parola all’ unisono [....]/ la vivente comunione / di tempo e eternità vale a recidere / il duro filamento d’ elegia. / È arduo. Tutto l’ altro è troppo ottuso»
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La seconda conversazione «Il Poeta e la Donna. Da Beatrice alla Vergine», affidata a Claudia Di Fonzo che insegna Diritto e Letteratura all’Università di Trento, è stata occasione di comprensione della natura della Donna nel pellegrinaggio esistenziale e poetico di Dante. La relatrice, tralasciando volutamente la descrizione delle donne di Dante, ci ha sapientemente guidato attraverso molteplici citazioni a riconoscere nella Donna l’incarnazione dell’Amore che muove il cielo e tutte le altre stelle, forza fondante e operante che sostiene l’intero cammino del poeta. Questo movimento di Grazia di cui la Donna è foriera, viene reso esplicito nel secondo Canto dell’Inferno: é Beatrice che soccorre e precorre al disio il poeta nel dramma del suo smarrimento. In verità, anche altre figure femminili partecipano a questo soccorso, in primis Maria, Madre e Grazia, che chiede a Lucia, sapienza degli occhi, che a sua volta chiede a Beatrice, donna amata da Dante, di soccorrere colui che l’amò tanto. Beatrice è la donna che possiede quella virtù per la quale la specie umana può sollevarsi al di sopra del mondo terreno, é colei che è in grado di infrangere le leggi che governano i tre regni e discendere dal paradiso all’inferno, grazie a quell’Amore che spinge a amare nuovamente, e che infine conduce a Dio. E ancora, lei che affida Dante a Virgilio in quel misterioso viaggio dell’anima che, da un’iniziale esperienza del male, lo porterà a salire la scala della contemplazione.
«I'son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare. Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui". Tacette allora, e poi comincia' io: "O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c'ha minor li cerchi sui, tanto m'aggrada il tuo comandamento, che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi; più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento. Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro de l'ampio loco ove tornar tu ardi". "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, dirotti brievemente", mi rispuose, "perch' i' non temo di venir qua entro. Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; de l'altre no, ché non son paurose. I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale» Inf., II, 69-93
Punto di alto interesse del contributo di Di Fonzo è l’identificazione della donna con la lingua volgare che Dante sceglie per scrivere la Commedia. Per Dante il volgare è la lingua propria del giardino dell’impero che è l’Italia, ma prima di tutto è la lingua che ogni essere umano impara dalla donna sin dal grembo materno. Egli la sceglie come la lingua di tutti e per tutti e la contrappone alla lingua artificiale dei pochi che è il latino. La predilezione di Dante per la lingua volgare è un atto di giustizia così come è un atto politico la scelta del genere della Commedia nell’intonare il canto di una narrazione che inizia in un clima tenebroso e che si apre gradualmente ad un orizzonte di luce. Il volgare, per questa sua specificità primogenia e archetipica, conclude in modo del tutto originale la relatrice, è in grado di conservare la natura filosofica della lingua adamitica, quella con cui Dio e l’uomo dialogano. Allo stesso tempo svela la natura della Donna, custode da sempre di una parola che nell’incarnazione dell’Amore muove e salva.
Infine, «Il Poeta e il Viaggio. L’itinerario esistenziale e spirituale di Dante» è il titolo della terza conversazione a cura di Franco Nembrini, educatore e noto divulgatore della Commedia. La sintesi di questa conversazione è affidata al suo collaboratore Filippo Ungar, giovane universitario dell’Università di Firenze. Si è cercato dunque (in questa sede) di restare il più possibile attinenti al suo lavoro, per restituire anche una prospettiva giovanile e conservare il vivo rapporto tra il pensiero dello studioso e la sua “scuola”. E dunque Filippo ci introduce il discorso di Nembrini il quale, con il tono appassionato e coinvolgente che lo contraddistingue, ha raccontato i primi canti della Commedia a partire dall’esperienza d’amore di Dante per Beatrice nella Vita Nova. Per comprendere a pieno la selva oscura in cui Dante si trova all’inizio della Divina Commedia, non si può prescindere dalla promessa di bene che l’amore per Beatrice è stato nella vita di Dante, e dal successivo tradimento avvertito dal poeta al momento della sua morte. L’oscurità si trova nel nostro sguardo, come una cataratta che impedisce di vedere la realtà in modo puro, e di accettarla interamente. Questa è l’oscurità che Dante, ferito dall’esilio, dal proprio peccato, e dalla morte di Beatrice, sente inesorabilmente all’inizio del poema sacro. Eppure, la selva non è il contenuto del poema: «Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte» (Inf., I, 8-9): “vi”, cioè nella selva, Dante racconta il bene che ha trovato. Un bene che è passato attraverso la presenza salvifica di Virgilio che si presenta a lui e poco dopo lo salva dalla lupa. Con l’antico vate inizia il lungo viaggio. «Allor si mosse, e io li tenni dietro» è il celeberrimo verso finale del primo canto. Ma il viaggio iniziato non è lineare o privo di imprevisti, anzi fin da principio è la viltà che attanaglia Dante in Inf., II. Su questa cantica si è concentrata la parte finale dell’intervento di Nembrini: di cosa ha bisogno Dante di fronte alla viltà che lo assale? Cosa gli può far recuperare l’ardire e la franchezza che gli servono per intraprendere il viaggio? Ebbene, ha bisogno che Virgilio gli racconti il motivo del loro incontro, ossia che Beatrice ha attraversato tutto l’Aldilà, dal Paradiso è discesa fino al Limbo, affinchè Virgilio si muovesse a salvare Dante; e addirittura prima di lei Santa Lucia e Maria stessa si sono mosse per lui. In una parola, Dante ha bisogno di sapere che è amato, che c’è qualcuno che si muove per lui. Ed è a causa di questo amore che riuscirà a superare la viltà. Accorgerci che ciascuno di noi è destinatario di un amore così grande, ha concluso Nembrini, è ciò che può consolare e rafforzare anche noi oggi. Persino i giovani, seppur apparentemente distanti, potrebbero avvicinarsi alla bellezza della letteratura se avessero la possibilità di cogliere il dono di questo amore che salva.
La Badia Fiorentina, antico monastero benedettino di fondazione cluniacense riferimento spirituale della città al tempo di Dante, è abitato ancora oggi da una viva fraternità monastica che testimonia il dono di questo amore e ricorda nella liturgia della vita la reciproca inerenza tra cielo e terra. Al suo interno si trova la Cappella Pandolfini, già chiesa di Santo Stefano protomartire in cui si svolse la prima "Lectura Dantis", commissionata nell’ottobre 1373 dal Comune di Firenze ad un singolare professore, Giovanni Boccaccio, al quale si deve anche l’aggettivo Divina che da allora precede il poema.
Per la Fraternità di Gerusalemme riaprire questo antico luogo la cui storia è legata al poema sacro, significa porsi nuovamente in ascolto, insieme alla città tutta, dei versi del sommo poeta, nell’accordo riscoperto di pensiero e spirito. E quindi di una cultura che sia vero nutrimento dell’anima.